C’è una pietra nel fondo del bosco, lontano dai sentieri, che porta incisi simboli strani. Il Barba, che ha studiato alla Scuola Latina, dice che li hanno tracciati antiche genti pagane, che adoravano il sole.
Anche se passa tutto il suo tempo a pregare, oggi la Rosa ha messo i grissini ad ammollare nel brodo di pollo per festeggiare con la zuppa, domani, il ritorno del sole, dopo la notte più lunga dell’anno. E se anche i bambini, questa sera, stretti l’uno all’altro vorranno ascoltare, avidi, storie di mostri e di streghe, domani saranno sollevati di tornare a giocare sotto i raggi freddi di un sole novello.
Dicono che in città sia diverso, che con le labbra dipinte di rosso, le donne danzino dentro una notte dalla quale la tenebra è stata esiliata.
Ma la verità è che tutti, da sempre, bramiamo il ritorno del sole.
Ma è a noi che appartiene la notte più lunga.
Quando col casco calato sul capo arriviamo dove il buio è più denso e più fondo, ritorniamo bambini, quando nelle notti d’inverno la civetta chiamava la morte. La pompa costante, come il ruscello lontano, la mina che scoppia come l’albero cade, e si attende e si teme di udire lo scricchiolio del legno che cede, quando la montagna si riprende il suo posto.
Nell’odore di roccia che opprime si rosicchia pian piano il tempo in un eterno solstizio d’inverno. Non c’è nulla che brilli quaggiù, non c’è oro nel cuore del monte, solo talco e sudore. Solo fatica per poter regalare pollo e cannella per chi può festeggiare il ritorno del sole.
Finché in un colpo di tosse si comprende sgomenti che ormai la notte ci è entrata nel petto a rubarci il futuro un respiro alla volta e che non ci sarà più per noi un solstizio d’estate.
Scritto da Antonella Mecenero
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