È una storia che parla di amicizia quella che vi stiamo per raccontare. Siamo alla fine degli anni ‘40 e l'Ucraina esce dal secondo conflitto mondiale liberata dall'esercito sovietico.
La guerra l'aveva profondamente devastata; un’ennesima prova non facile per questo paese il cui nome tradotto nella nostra lingua significa "terra di confine" quasi ad evidenziare le sue continue controverse vicende.
Ci conoscemmo a 17 anni. Ricordo che diventammo amici quella volta che mi invitò a casa e sua madre ci aveva preparato un piatto di funghi cucinati divinamente.
Da allora ci incontrammo spesso là. Era una piccola masseria immersa
nel silenzio della campagna, in lontananza una collina dal profilo appena accennato. Parlavamo del futuro: speranze, ideali, convinzioni.
Frequentavamo la biblioteca; io amavo la fisica: la filosofia delle leggi del mondo. Ero affascinato dalle moderne teorie di Einstein e Planck. Forse un giorno avrei lasciato anch’io una traccia indelebile nella storia. In realtà non avevo mai avvertito un’appartenenza profonda nei confronti di quella terra, intendevo andare presto in città a rincorrere il mio sogno.
Lui, il mio amico, trascorreva ore immerso nei classici; apprezzava molto anche gli scritti di Ivan Franko: sembrava davvero affascinato da quei pensieri. Scriveva le sue semplici poesie su piccoli pezzi di carta, ispirandosi sempre a quel modesto mondo rurale fatto di pianure e distese sterminate di grano. Osservava i fiori anche per ore, al bordo del fiume.
Amava quei luoghi in maniera viscerale sebbene la guerra mondiale appena terminata li aveva devastati lasciando ovunque profonde lacerazioni.
Lo ritrovai, l’amico di gioventù, lo ritrovai più di quarant’anni dopo.
L’Ucraina, quella sua terra, era ormai diventata indipendente ed io arrivavo da lui con uno scomodo fardello, una colpa imperdonabile: quel maledetto reattore ci era sfuggito di mano ed aveva scatenato l’inferno.
Il mio sogno mi aveva tradito e ciò che di indelebile avevo lasciato alla storia non era ciò che avrei voluto lasciare. Quei luoghi sembravano essere rimasti immutati: lo stesso vento, gli stessi silenzi, ancora le stesse distese infinite di
grano. Lo ritrovai, l’amico di gioventù, era ancora là nella sua amata pianura nera a guardare i fiori al bordo del fiume. Sono sicuro che mi riconobbe all’istante. Non riusciva a parlare, un male terribile lo stava divorando. Il frutto amaro degli errori umani aveva compiuto il suo scempio. Guardava il mondo con calma e distacco ma sembrava felice di rivedermi.
Nel suo sguardo c’era la serenità di chi si stava preparando a partire, fiero però di rimanere per sempre in quella terra ferita, laddove le sue radici l’avevano fatto crescere.
La terra ferita scritto da Fabio Giusti
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