sabato 2 aprile 2011

Trucchi nella Bottega del Mistero


Antichi trucchi

“Resta di stucco… è un barbatrucco!” dicono i tenerissimi Barbapapà.
“È immorale che i pollastri si tengano i loro soldi”, gli risponde cinicamente un giocatore molto meno tenero ma sicuramente parimenti esperto in fatto di trucchi che porta l’esplicito nome di Jack Cinqueassi.
Insomma, i trucchi sono ovunque. E del resto attorno ad uno dei trucchi più famosi della storia è nata la prima letteratura europea.
Omero racconta di come i Greci, per conquistare la città di Troia, che assediavano vanamente da dieci lunghissimi anni, decisero di costruire, su consiglio dell’astuto Ulisse, un grande cavallo di legno e di lasciarlo davanti alla città prima di levare le tende. Un disertore greco, catturato dai Troiani, rivelò inoltre che il cavallo era un sacrificio agli dei e che avrebbe reso inespugnabile la città, se solo fosse stato portato al suo interno. I Troiani, contenti, portarono il cavallo dentro le mura, ma quella notte i Greci uscirono dal ventre vuoto del cavallo di legno e aprirono le porte ai compagni. Che sciamarono all’interno e distrussero la città fino alle fondamenta.
Quello del cavallo di Troia forse non fu il primo, ma certamente non fu l’ultimo trucco utilizzato nelle guerre.
Lo studio dei trucchi militari, che gli antichi chiamavano stratagemmi, è sempre stato parte della formazione dei comandanti. Già i Greci e Romani studiavano gli espedienti dei generali per accumulare un bagaglio di conoscenze da utilizzare secondo le necessità. Ad esempio si studiava il modo di lasciare nottetempo l’accampamento con l’intero esercito facendo credere al nemico di essere ancora all’interno. O quello per avvicinarsi inosservati al nemico. O come attraversare i fiumi costruendo imbarcazioni di pelle.
Anche nella vita quotidiana del mondo antico c’erano trucchi, utilizzati per ottenere determinati risultati.
I sacerdoti dell’antica religione pagana erano soliti ricorrere ad ogni genere di trucco per accrescere la loro popolarità. I sacerdoti Egiziani ad esempio erano capaci di manipolare i serpenti, stirandoli senza ucciderli, in modo da poterli tenere in mano rigidi come bastoni. In caso di bisogno, per impressionare il popolo o il sovrano, scagliavano il “bastone” a terra e questo si trasformava magicamente in un serpente. Infatti l’animale, per l’urto con il suolo era sciolto dalla sua immobilità e ricominciava a muoversi.
A volte certi trucchi erano però usati per fare quattro risate in compagnia. Ad Ornavasso è stata rinvenuta, in una vasta necropoli di età celtica e romana, un curioso bicchiere.
Effettivamente il bicchiere, che è di ceramica, ha una particolarità. Esso veniva riempito di vino e offerto all’ignaro ospite, ma quando questo cercava di berne il contenuto rimaneva scornato, perché trovava il bicchiere vuoto.
Un bicchiere magico, insomma, ma certamente il trucco c’è, anche se non si vede.
Osservando attentamente il bicchiere si scopre infatti che esso ha una sorta di camera d’aria tra la superficie esterna e quella interna. Sul fondo di questa vi è un piccolo foro attraverso cui il vino fluisce nella camera interna. Questo flusso può però essere interrotto, premendo un dito su un secondo piccolo foro che unisce la camera interna alla superficie esterna. Quando il vino viene versato dal burlone di turno, un dito chiude il foro esterno e consente, per la pressione dell’aria nella camera interna, di riempire il bicchiere. Non appena il bicchiere passa di mano l’aria all’interno fuoriesce per la pressione del vino, che si riversa nel sottofondo interno. E l’ospite si ritrova con il bicchiere vuoto.


Lo spettacolo deve continuare

“Lo spettacolo deve continuare. Mi si spezza il cuore. Il trucco si sta sciogliendo, ma io continuo a sorridere. Non mi arrenderò mai. Lo spettacolo deve continuare.” Il palcoscenico è una grande finzione, un trucco che vede complice lo spettatore, che dimentica di trovarsi davanti ad un palco con degli attori e s’immerge nella storia, sia essa recitata o cantata. E il trucco, o la maschera, dell’attore è solo una parte di questa finzione. Che può essere molto dolorosa per chi sta sul palco.
Il 14 ottobre 1991 veniva pubblicato “Innuendo” l’ultimo album dei Queen nella formazione storica, consolidatasi nel 1971 con l’entrata nel gruppo del bassista John Deacon, accanto ai fondatori Freddy Mercury, Brian May e Roger Taylor.
Fu Freddy Mercury, la voce della band, a proporre il nome “Queen” con queste motivazioni: «È solo un nome, ma è molto regale ovviamente, e suona benissimo. È un nome forte, molto universale e immediato. Ha molte potenziali visuali ed è aperto a tutti i tipi di interpretazioni.»  Anche lo stemma della band fu disegnato da Mercury, che era diplomato in arte e design grafico.
Includeva i segni zodiacali dei quattro componenti, sovrastati da una fenice, il mitologico e immortale uccello conosciuto per la proprietà di risorgere dalle proprie ceneri. Il logo vede  due leoni (Roger Taylor e John Deacon) che presidiano la corona della regina al centro di una "Q", sotto un granchio (Brian May, del Cancro), mentre due fate sedute su due rose rappresentano il segno della Vergine (Freddie Mercury).
I Queen sono una delle Band di maggiore successo della storia della musica. Hanno venduto oltre 300 milioni di dischi in tutto il pianeta, con una carriera che continua tuttora nonostante l’uscita di scena di Mercury e Deacon.
Il successo non fu immediato. I primi album, che fecero conoscere la band in Inghilterra, sono caratterizzati da atmosfere misteriose, dove fate, orchi e crudeli regine bianche e nere si incontrano e si affrontano sulle coste di mari leggendari. Il successo venne nel 1975 con l’album “A night at the opera” titolo tratto da un famoso film dei fratelli Marx del 1935.
L’album contiene una delle canzoni più celebri della band e della storia della musica, “Bohemian Rhapsody”, scritta da Mercury e accompagnata dal primo video musicale.
È anch’essa una storia tenebrosa e da incubo, in cui si muovono personaggi delle fiabe come Scaramouche, mentre cori misteriosi innalzano dall’oscurità un’invocazione coranica  a Dio, il Clemente e Misericordioso. Mercury (il cui vero nome era Farrokh Bulsara) infatti era di origine indo persiana e aveva trascorso l’infanzia nell’isola di Zanzibar.
Tornando ad Innuendo, la dodicesima ed ultima traccia dell’album porta il titolo “The show must go on”. All’inizio si pensò che essa fosse una sorta di testamento spirituale di Freddy Mercury, che all’epoca era già gravemente malato. In realtà il pezzo, caratterizzato da una melodia struggente e un testo malinconico, fu inizialmente scritto da Brian May, ma giunse alla forma definitiva attraverso un lavoro di gruppo, caratteristica comune a gran parte delle canzoni dei Queen.
Brian May, peraltro, fino all’ultimo aveva nutrito parecchi dubbi sul fatto che Freddy Mercury potesse eseguire le impegnative parti vocali del brano. Al momento della registrazione, tuttavia, Mercury gli disse semplicemente “lo farò, tesoro” e dopo aver bevuto un bicchiere di vodka eseguì quella che è considerata una delle sue migliori performance canore. Sei settimane dopo la pubblicazione dell’album Freddy Mercury morirà per le complicanze dell’AIDS, il 24 novembre 1991.

Queen, The show must go on

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