Questa storia inizia su un’isola nell’oceano in cui precipita un aereo carico di ragazzi, in fuga da un imminente conflitto mondiale. Tutti gli adulti muoiono nell’impatto ed i ragazzi si ritrovano soli.
È l’inizio de “Il Signore delle mosche” il romanzo più famoso del Premio Nobel William Golding. Ai ragazzi, abbandonati a loro stessi, in quello che appare inizialmente come un vero paradiso terrestre, si manifesta un’inquietante presenza sotto forma di una testa di maiale ricoperta di mosche. È il Signore delle Mosche, come viene ribattezzata la bestia, e finirà per diffondere il male sull’isola fino alle estreme conseguenze.
Questa storia si collega ad un racconto molto più antico che risale a molti secoli prima. Nella Palestina dei tempi biblici esisteva veramente una divinità conosciuta come il Signore delle Mosche, adorata dai Cananei.
Per i Cananei era Baal Zebul, ovvero “il Principe Baal”, una divinità della guarigione e della fecondità. Agli orecchi degli Ebrei, loro nemici giurati, quel nome suonava però Baal Zebub, ovvero “Signore delle mosche”. E così Beelzebùl, il dio dei pagani, nella cultura ebraica e poi cristiana è diventato il “Principe dei demoni”.
Una presenza inquietante che compare sovente nei primi secoli del Cristianesimo, quando le divinità della declinante cultura pagana erano viste come altrettanti demoni. E che perdura ben oltre il Medioevo fino all’età moderna.
È anzi a partire dal Quattrocento che la caccia alle adoratrici di Belzebù, le streghe, si amplia. Nel 1487 viene pubblicato il “Malleus Maleficarum” (“Il martello delle streghe”) un testo che contiene una teoria farneticante sui rapporti tra le streghe e il demonio e che per gli inquisitori diventerà un vero e proprio copione di “confessioni” da estorcere mediante la tortura.
La testimonianza del primo processo ad una strega è però più antico e viene, incredibilmente, proprio dal Lago d’Orta.
È il 1340 circa e il celebre giurista Bartolo di Sassoferrato viene interpellato dal Vescovo di Novara per avere un consiglio sulla pena da infliggere ad una donna di Orta, arrestata e processata con l’accusa di essere una strega. Il nome della donna ci è sconosciuto, così come la sua sorte, anche se alcuni pensano che la poveretta sia finita sul rogo.
Il Piemonte peraltro sembra particolarmente collegato alla figura del diavolo. E Torino in particolare ha una fama sinistra in questo senso.
Torino è considerato uno dei vertici del cosiddetto triangolo della magia nera. Si mormora addirittura che un tombino nel giardino al centro di Piazza Statuto non conduca al nodo centrale delle fogne cittadine, ma niente meno che alla Porta dell’Inferno.
È l’inizio de “Il Signore delle mosche” il romanzo più famoso del Premio Nobel William Golding. Ai ragazzi, abbandonati a loro stessi, in quello che appare inizialmente come un vero paradiso terrestre, si manifesta un’inquietante presenza sotto forma di una testa di maiale ricoperta di mosche. È il Signore delle Mosche, come viene ribattezzata la bestia, e finirà per diffondere il male sull’isola fino alle estreme conseguenze.
Questa storia si collega ad un racconto molto più antico che risale a molti secoli prima. Nella Palestina dei tempi biblici esisteva veramente una divinità conosciuta come il Signore delle Mosche, adorata dai Cananei.
Per i Cananei era Baal Zebul, ovvero “il Principe Baal”, una divinità della guarigione e della fecondità. Agli orecchi degli Ebrei, loro nemici giurati, quel nome suonava però Baal Zebub, ovvero “Signore delle mosche”. E così Beelzebùl, il dio dei pagani, nella cultura ebraica e poi cristiana è diventato il “Principe dei demoni”.
Una presenza inquietante che compare sovente nei primi secoli del Cristianesimo, quando le divinità della declinante cultura pagana erano viste come altrettanti demoni. E che perdura ben oltre il Medioevo fino all’età moderna.
È anzi a partire dal Quattrocento che la caccia alle adoratrici di Belzebù, le streghe, si amplia. Nel 1487 viene pubblicato il “Malleus Maleficarum” (“Il martello delle streghe”) un testo che contiene una teoria farneticante sui rapporti tra le streghe e il demonio e che per gli inquisitori diventerà un vero e proprio copione di “confessioni” da estorcere mediante la tortura.
La testimonianza del primo processo ad una strega è però più antico e viene, incredibilmente, proprio dal Lago d’Orta.
È il 1340 circa e il celebre giurista Bartolo di Sassoferrato viene interpellato dal Vescovo di Novara per avere un consiglio sulla pena da infliggere ad una donna di Orta, arrestata e processata con l’accusa di essere una strega. Il nome della donna ci è sconosciuto, così come la sua sorte, anche se alcuni pensano che la poveretta sia finita sul rogo.
Il Piemonte peraltro sembra particolarmente collegato alla figura del diavolo. E Torino in particolare ha una fama sinistra in questo senso.
Torino è considerato uno dei vertici del cosiddetto triangolo della magia nera. Si mormora addirittura che un tombino nel giardino al centro di Piazza Statuto non conduca al nodo centrale delle fogne cittadine, ma niente meno che alla Porta dell’Inferno.
Un cavallo senza nome
Era il 1971 quando tre ventenni americani bussarono alla porta di una casa inglese. I tre ragazzi avevano una strana storia alle spalle, ma colui che li fece entrare era un personaggio decisamente fuori dalle regole.
L’anno precedente i tre – che rispondevano al nome di Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek – avevano dato vita ad una formazione musicale che avevano chiamato “America” in omaggio ai loro padri, militari statunitensi, sposati a donne inglesi, in una base dell’aviazione americana a Londra. L’uomo che apri loro la porta era invece Arthur Brown, noto con il soprannome di “God of the Hell’s Fire” per via della più famosa canzone da lui scritta, nel 1968, “Fire”.
Durante il soggiorno nella casa studio di Brown, nel Dorset, la mente del giovane Dewey chiuso nella sua stanza, mentre fuori cadeva la tipica pioggia inglese, fu colpita da due immagini.
La prima era un asciutto deserto raffigurato in un quadro di Salvador Dalì, l’altro era un misterioso cavallo che usciva da un’immagine di M.C. Escher. Dewey fu preso dalla nostalgia del deserto che aveva attraversato nella sua infanzia, passata tra l’Arizona e il New Mexico, e cercò di rivivere quelle emozioni attraverso una canzone.
Ne nacque un brano chiamato inizialmente “Desert song”, dove si descrive un viaggio, compiuto su un cavallo senza nome, in un deserto in cui la prima cosa che incontra il protagonista è il ronzio di una mosca. E sarà proprio questo cavallo senza nome a decretare il successo della canzone.
Il primo album (che portava lo stesso nome della band) “America”, pubblicato nel 1971, non conteneva questa canzone. Nel frattempo però la band aveva deciso di dare a “Desert song” un nuovo titolo, “A horse with no name”. Dopo il successo del brano l’album fu riorganizzato inserendo quella che era diventata una hit mondiale.
Una parte del successo della canzone si deve probabilmente all’interpretazione del termine “cavallo” che diedero alcuni benpensanti, spingendo alcune radio statunitensi a censurare il brano, proibendone la messa in onda.
“Cavallo” era infatti il termine gergale con cui si indicava l’eroina e la censura vide erroneamente nella canzone un inno alla droga. Nonostante, o grazie a questo, la canzone scalò le classifiche decretando il successo mondiale della band che aveva attraversato il deserto su un cavallo senza nome.
L’anno precedente i tre – che rispondevano al nome di Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek – avevano dato vita ad una formazione musicale che avevano chiamato “America” in omaggio ai loro padri, militari statunitensi, sposati a donne inglesi, in una base dell’aviazione americana a Londra. L’uomo che apri loro la porta era invece Arthur Brown, noto con il soprannome di “God of the Hell’s Fire” per via della più famosa canzone da lui scritta, nel 1968, “Fire”.
Durante il soggiorno nella casa studio di Brown, nel Dorset, la mente del giovane Dewey chiuso nella sua stanza, mentre fuori cadeva la tipica pioggia inglese, fu colpita da due immagini.
La prima era un asciutto deserto raffigurato in un quadro di Salvador Dalì, l’altro era un misterioso cavallo che usciva da un’immagine di M.C. Escher. Dewey fu preso dalla nostalgia del deserto che aveva attraversato nella sua infanzia, passata tra l’Arizona e il New Mexico, e cercò di rivivere quelle emozioni attraverso una canzone.
Ne nacque un brano chiamato inizialmente “Desert song”, dove si descrive un viaggio, compiuto su un cavallo senza nome, in un deserto in cui la prima cosa che incontra il protagonista è il ronzio di una mosca. E sarà proprio questo cavallo senza nome a decretare il successo della canzone.
Il primo album (che portava lo stesso nome della band) “America”, pubblicato nel 1971, non conteneva questa canzone. Nel frattempo però la band aveva deciso di dare a “Desert song” un nuovo titolo, “A horse with no name”. Dopo il successo del brano l’album fu riorganizzato inserendo quella che era diventata una hit mondiale.
Una parte del successo della canzone si deve probabilmente all’interpretazione del termine “cavallo” che diedero alcuni benpensanti, spingendo alcune radio statunitensi a censurare il brano, proibendone la messa in onda.
“Cavallo” era infatti il termine gergale con cui si indicava l’eroina e la censura vide erroneamente nella canzone un inno alla droga. Nonostante, o grazie a questo, la canzone scalò le classifiche decretando il successo mondiale della band che aveva attraversato il deserto su un cavallo senza nome.
America, A horse with no name
La foto è una cortesia di ELE.
La bottega del mistero vi da alcuni altri suggerimenti musicali. Ad esempio:
U2 – The fly
Sugar Ray, Fly
Ma voi, quali altre canzoni dedicate alle mosche conoscete?
Fatecelo sapere coi vostri commenti!
Questo post è realizzato da www.illagodeimisteri.it
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