sabato 1 maggio 2010

SABATO 1 MAGGIO - IL LAVORO


IL LAVORO


- Anche lei qui Rabbi… lei non dovrebbe lavorare.
- Nessuno di noi dovrebbe, figliolo. Oggi è sabato. Ma cosa importa? Non ci sarà più vita per noi. Non ci sarà più il mondo per noi.
- Sta dicendo che finirà tutto, da oggi, da qui dentro? Dio si è forse dimenticato di noi, Rabbi?
- Non parlarmi di Dio. Non chiamarmi rabbi.

I due uomini lavorano fianco a fianco, battendo il ferro rovente con difficoltà. Le loro mani sono ancora morbide e bianche. Sono qui solo da due giorni, hanno mangiato pochissimo e dormito ancora meno, ma le loro mani sono ancora bianche, e morbide. Quando avranno finito con il ferro, il tornio e il saldatore non saranno più così. Le mani, e tutto il resto.
Il professore ha gli occhiali incrinati, e una famiglia finita chissà dove.
Il rabbino ha una costola incrinata, e un Dio finito chissà dove.
Le loro mani non hanno mai lavorato così tanto, con il ferro rovente, con gli attrezzi. Le loro mani sfogliavano libri di scuola e srotolavano torah, impugnavano penne di radica e d’argento. Ora impugnano un martello e battono, battono sul ferro rovente.
- Crede che ci lasceranno mai andare?
- No. Non credo che usciremo mai più da qui.
- Perché tutto questo?
- Se lo domanderanno settanta generazioni per settanta secoli.
- Che cosa stiamo producendo, Rabbi?
Il rabbino guarda le forme nate dalle loro bianche mani, e dalle mani di altri come loro, nell’officina che non ha finestre. Guarda le lettere di ferro, e sente Dio pugnalarlo alle spalle.
- Produciamo l’inizio.
- L’inizio? L’inizio di cosa, Rabbi?
- Della sofferenza di chi verrà dopo di noi. Non chiamarmi rabbi.

Il lavoro deve proseguire. Non ci saranno pause, non ci saranno pasti. Il ferro deve essere battuto, tornito, saldato finché il lavoro non sarà terminato.

Il professore e il rabbino vengono portati fuori nell’ampia corte, insieme con altri quattro. Da sei giorni non vedono la luce. C’è un sole freddo, come l’inferno. Camminano in fila, il lavoro pesa sulle spalle, la fame pesa sulle gambe.
“Forza, muovetevi! – grida il sergente – tu e tu, arrampicatevi lassù, sulle colonne! E voi, forza col saldatore. Siete stati davvero bravi. Tranquilli – sorride il sergente – che tra poco è tutto finito, per voi”.
Il professore e il rabbino si guardano le mani, mentre vengono sospinti contro il muro di cinta. Sono nere di fuliggine e screpolate.
“Bello, no?” il sergente indica il lavoro, appeso lassù, sopra i loro sguardi.
Le lettere in ferro battuto dicono: ARBEIT MACHT FREI.
Per settanta generazioni, per settanta secoli.

RG

P.S.: cito per me, al proposito, una frase del grande poeta tedesco (ebreo) Heinrich Heine:
Dio mi perdonerà: è il suo lavoro

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