venerdì 27 maggio 2011

L'ALFABETO DEL LAGO



Che bello il tema di questa puntata di SiamoInOnda! Alfabeto è una delle mie parole preferite. E una delle mie cose preferite: adoro gli alfabeti. Quando ero piccola mi chiamavano "Champollion" proprio per questa mia passione, e negli anni ho incontrato altri alfabeti come.. la stenografia! il cirillico per il bulgaro e per il russo, e poi l'ebraico e l'armeno.



Per questo vi regalo un mio racconto dove anche la natura, in particolare il lago (nel racconto il protagonista è il lago d'Orta... ma ognuno di noi ha il suo lago personale) riesce ad esprimersi con un proprio personale alfabeto.






L’ALFABETO DEL LAGO

Appoggio il libro aperto sul viso, e con gli occhi chiusi respiro profondamente l’odore delle pagine ingiallite. Sa di muffa e di polvere. E’ un vecchio libro, molto vecchio.
Sa di umido, l’umido salmastro della laguna. Però sa anche di marmellata di rose.
Socchiudo le palpebre e le ciglia fanno un rumore lieve di graffio, frrr, sulla carta.
Lo sguardo afferra un lampo azzurro liquido. Faccio finta che sia mare, il mare fermissimo che circonda l’isola di San Lazzaro.
Fingo di essere altrove, mi viene bene, sono maestra nell’escapologia sottile, io che non vorrei mai essere nel qui e adesso. Va bene per un po’, ma poi fuggo.
Uso odori, immagini, carta e inchiostro come tappeti volanti su cui scappar via.
Al monastero, per esempio, come in questo momento.
Respiro la vita del vecchio libro armeno e faccio finta che sia mare di laguna, quell’azzurro che ho tra le ciglia. Invece è lago.
Spalanco gli occhi.
L’atmosfera è così piena di luce da farmi immaginare me stessa e i gatti, e i pochi bagnanti nella spiaggia sottostante, come negativi fotografici. Sagome scure contornate di bianco.
In fondo sono in un posto davvero speciale, finisco con l’ammettere a me stessa, in un momento altrettanto speciale.
Appoggio il libro sul pavimento della veranda sospesa sul lago. I gatti giocano nell’erba alta sotto la scala, si mordono, si inseguono e rotolano agilmente come matasse di seta lucente tra le ombre sempre più lunghe del tramonto.
Respiro l’aria, così fresca da sembrare appena fatta. Una gallinella d’acqua guida tra le canne la sua squadra di minuscoli pulcini. Il loro profilo sottile ricorda la grafia della W nell’alfabeto armeno.
L’abbaglio di San Lazzaro mi ferisce gli occhi e accarezzo il vecchio libro senza guardarlo.
La copertina è calda di sole. Le piccole hyn scompaiono sotto la veranda pigolando e io fuggo nuovamente, dalla laguna al lago, dal lago alla laguna, e ancora e ancora.
Sento il calore del libro premere contro i polpastrelli. Cerco altre parole per scappare, altri suoni, altre grafie. Cerco altre lettere da allineare, in alfabeti nuovi e antichi.
Cerco Dio tra i resti di coloro che hanno accettato di morire in Suo nome. Forse una volta devo averlo intravisto, ma è stato un caso. Lui non era lì per me.
Il lago sì, è qui per me. Sono curiosa di sentire cosa vuole raccontarmi.
Vorrà pregarmi di rimanere, di non scappare, mai più o almeno questa volta.
Entro nella grande cucina che affianca la veranda, c’è un’immensa vetrata che mi permette di continuare il mio dialogo con il lago. Apro una scatola di tonno, ne spalmo un po’ su due fette di pane e il resto lo metto in un piatto per i gatti che arrivano con soffici balzi, le code ritte.
Scendo la scala verso la riva scura. Percepisco ogni passo: le piante dei piedi che si appoggiano sul metallo caldo dei gradini, poi sull’erba morbida e infine sulla sabbia umida.
La farina della pagnotta come talco sui polpastrelli, i capelli che ondeggiano e sfiorano la pelle del collo.
Mastico pane e tonno. Pesce di mare, il lago non si offende.
Ancora un passo e l’acqua, che riflette la sera, mi tocca le caviglie. Sento l’odore delle alghe e dei piccoli molluschi che incrostano il muretto lì accanto.
I gatti e le gallinelle d’acqua sono impegnati a vivere il presente, con la stessa concentrazione di sempre. Gli esseri umani devono affrontare il passato e il futuro.
Il lago vuole spiegarmelo.
Usa lo schioccare delle rondini alte nel cielo, il sussurrare dei giunchi nel lago, il tenue sciabordìo dell’acqua contro la mezzaluna scura della spiaggia. Usa un alfabeto che dovrei conoscere.
La fonetica delle brevi onde mi riporta all’affondo della pagaia, alle mie passeggiate in canoa, all’inseguimento di germani e folaghe che emettevano qua-qua stizziti tracciando rune triangolari sulla superficie davanti alla prua.
Anche la canoa era un mezzo di fuga. Ogni pagaiata mi portava sempre più verso l’altrove, verso un cigno, verso un salice piegato all’inverosimile.
Mi ripromettevo ogni volta di avvicinarmi ai nidi nascosti nei canneti.
Cercavo Dio tra i resti dei rami finiti alla deriva.
Il lago mi parla dolce e paziente come se fossi legname fluitato al quale spiegare perché viene sospinto verso un dove sconosciuto.
Mi chiedo quante lettere conta l’alfabeto del lago.
Ho un brivido, l’acqua ha disperso il suo calore nell’aria che adesso, a un passo dalla notte, si fa umida.
Mentre ascoltavo, ho sbriciolato l’ultimo pezzetto di pane e tonno e ora gli avannotti si accalcano intorno ai miei piedi. Come piccoli aghi si uniscono e si separano tra loro formando caratteri cuneiformi.
Il lago non sa solo parlare, sa anche scrivere.
Risalgo la scala di metallo, riprendo il vecchio libro armeno, e mentre mi chiudo la porta della veranda alle spalle lo annuso nuovamente: marmellata di rose, e un po’ di lago.
Lui sembra aver appreso la lezione, l’esistenza di un nuovo odore da trattenere tra le pagine. Guardo l’acqua scura sotto di me, attraverso la vetrata. Le stelle riflesse sono punti Morse.
Sorrido. Accetto la tua proposta, caro lago. Un nuovo alfabeto da imparare.
La curiosità alimenta le mie fughe.
E quindi rimango.

Sì. Rimango.



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