Crisi
di Mario Favini24 ottobre 1929
Ho chiuso la porta del mio ufficio a doppia mandata, mi sono acceso una sigaretta e mi sono seduto alla scrivania per scrivere queste poche righe d’addio. Se ho portato con me la rivoltella, se tra pochi minuti me la punterò contro e premerò il grilletto, è perché non sopporterei di dover dire a mia moglie quanto sono stato stupido. Non sopporterei di vendere la nostra villa, di perdere la macchina con l’autista, di vedere i miei bambini patire la fame. È tutto finito. Sono finiti i nostri sogni, sono morte le nostre speranze. Presto finiranno anche i nostri soldi, e non avremo più nemmeno un tozzo di pane. La Grande Guerra, per l’economia, è stata come l’inverno per i campi e per i prati. Tutto si è fermato, tutto è rimasto come congelato. Poi, con la pace, è arrivata la primavera, coi suoi fiori e coi suoi frutti: investimenti, piani di sviluppo, motorizzazione, progresso. Per chi, come me, era un giovane economista rinomato e senza scrupoli sono arrivate le vacanze al mare, le passeggiate a cavallo, le case a due piani e la servitù. Abbiamo continuato a speculare e ad investire, a comprare titoli ed azioni, come in un grande carosello, come su una giostra che gira e gira, senza fermarsi mai. Oggi, invece, la borsa è crollata e io non posso sopportare di dire a mia moglie che non avevo capito niente, di dirle che abbiamo perso tutto. Per questo, tra poco, mi punterò la pistola alla tempia, e premerò il grilletto.
Perché anche la primavera, prima o poi, finisce.
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