sabato 12 dicembre 2009

Mi chiamo Gianni (ovvero, il mio… 1984)

Son lì che guardo il Ducati, che fa un effetto strano, sul cavalletto, senza la ruota posteriore. Il gommista è lì che trappola con la macchina e leva il vecchio pneumatico, che poi non era neanche tanto consumato, ma era di un tipo che non andava un granché. Lo guardo a lungo, attento, mentre gli calza il nuovo Dunlop K 181, che adesso ti faccio vedere io le pieghe. Non subito, i primi chilometri ci vado piano, me le pulisco e me le preparo per bene, poi la butto giù un po’ per volta. La radiolina bianco latte trasmette una bella canzone di Phil Collins, di un paio di stagioni prima…
Tù-tù tutùmm…! quattro colpi di batteria e poi I can feel it coming in the air tonight, Oh Lord…! E’ la tarda primavera del 1984, e Orwell c’ha quasi preso, con il suo romanzo del 1948, ma insomma in motocicletta si può ancora andare…
Attento, ragazzo, allacciale bene quelle scarpe alla mia bambina, penso guardando il garzone che spennella il lubrificante e poi la macchina che fa girare piano il cerchio. E… plomp! la gomma va in sede. Gli sistema la valvola e poi dentro con l’aria… paff!...paff! Si sistema per bene, il Dunlop; con quei colpi del tallone sul cerchio si smuove un po’ l’aria ferma dell’officina e sento il profumo della gomma nuova, nera nera e semilucida. E’ lì che arriva il tipo con la barba. Scende da un Ford Capri bianco. E’ vestito anche lui da lavoro, sarà un meccanico o un elettrauto. A dir la verità un elettrauto è diverso, l’elettrauto è più pulito di un meccanico. Lui è una via di mezzo; guarda la moto con gli occhi furbi. Un lungo silenzio, inframmezzato solo da qualche rumore di ferri ed il rimbalzo della ruota sul pavimento grigio; poi, dopo che il gommista ha tolto la ruota dalla macchina rossa e nera dell’equilibratura, il tipo barbuto mi fa:
“Come va il Ducati?”. Io mi giro e gli dico, come lo conoscessi, che sì, va bene, ma da uno scarico mi fa un niente di fumo biancastro, un niente, ma c’è. Anche perché l’altro non lo fa, non è un’impressione. Alla concessionaria han detto che “va bene così”, ma secondo me è perché non sanno metterci mano. Lui ascolta e sta zitto, ma c’ha sempre quello sguardo un po’ furbo e molto appassionato alla cosa. Sembra che la sappia più lunga, dietro la generica domanda, un po’ da bar, così, tanto per chiacchierare. Ormai la moto è pronta e mentre vado a pagare le mie due nuove Dunlop lui mi fa, a sorpresa: “Posso dare un’occhiata?”.
Io non so perché, ma gli dico di sì, mi fido, mi sa che sa. Lui, dopo il mio permesso, che sembra non sorprenderlo più di tanto, tira fuori un cacciavite dal giubbotto e si avvicina al carburatore di competenza del cilindro – lievementissimamente – sfumacchiante in alcune circostanze. Accende il motore ed ascolta. I due cuori di Borgo Panigale gli raccontano…
Dopo un paio di botta e risposta tra lui e i pistoni, attraverso qualche colpetto di gas, un po’ un carotaggio geomeccanico sullo stato di salute del Desmo, lui tocca un Dell’Orto col cacciavite. Poi ascolta. Secondo me non ha nemmeno girato una vite. O forse no.
Poi un lungo e leggero crescere di giri, una sosta, poi un colpetto di gas ed un’altra toccatina in punta di cacciavite, soltanto di un niente più a lungo di prima. Io guardo gli scarichi, il destro un pelo alita ancora bianco, ma lo vediamo solo io e lui, ormai. Già, lui, gli sto lasciando toccare la mia Paprika rossa e gialla e non so neanche come si chiama… Ma son tranquillo, si vede il tocco dell’artista. O ha studiato recitazione all’Actor’s Studio con Steve McQueen, ho è un artista. Un altro tocco e un altro pelo di giratina col cacciavite dal manico albicocca.
Brummmmm!... ùmmm! Cazzo, non fuma. Va su di giri, il Ducati. E continua a non far fumetto, poi lui cala e sgasa e sgasa, ma non troppo, niente di volgare, son colpi di archetto sul violino, canto barocco-emiliano. Inimitabile. Pù-pù-pù-vrùuummmm! Canta rotonda come mai, la Ducati Pantah, canta come Phil Collins e tutti i Genesis, anche se lui è andato, il Phil, per gli affari suoi. I can feel…! In the air…! Cazzaròla, se gira. Sì, gira, rotola, scorre come non lo aveva mai fatto, prima. Lui si volta, per la prima volta da quando ha iniziato il lavoro e mi guarda interrogativo, ma c’ha gli occhi che ridono. Fa finta di aspettare il mio giudizio, ma lo sa che il Ducatino canta come lo voleva sentire l’ingegner Taglioni quando lo ha disegnato su un foglio di carta. Io mi faccio una risata e mi batto le mani aperte sulle cosce e lui capisce che è il mio ringraziamento. Sono contento, è come se mi avessero maggiorato la cilindrata del 350 a 400. Stringo i pugni, li agito in aria come se tagliassi un traguardo in corsa e sorrido ancora. Allora, finalmente, ride davvero anche lui. “Mi chiamo Gianni”, dice, porgendomi la mano.
“Marco”, gli dico io. E Basta. E restiamo lì che sorridiamo come due imbecilli soddisfatti, ma il gommista, uomo di mondo, ha capito tutto. 

Marco Franceschini

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