La stupidità può essere la risposta all’enigma di uno dei luoghi più misteriosi della Terra? La domanda è chiaramente retorica e la risposta è positiva se per stupidità non intendiamo l’assenza di intelligenza, ma l’insieme di quei comportamenti umani che conducono – per egoismo, assuefazione ed incapacità di previsione – alla rovina chi li agisce, si tratti di un singolo essere umano o di un’intera comunità.
Nel mezzo del Pacifico, lontana migliaia di chilometri dalla terra abitata più vicina, sorge una piccola isola di origine vulcanica, grande più o meno come l’Isola d’Elba. Qui, circa dodici secoli fa, sbarcò un gruppo di esseri umani che aveva compiuto una straordinaria traversata oceanica su barche di legno. Provenivano da ovest, probabilmente dalle Isole Marchesi, e quell’isola ricca di acqua e montagne coperte di vegetazione, circondata da un mare pescosissimo, parve loro senza dubbio un vero paradiso in terra. La chiamarono Te Pito Te Henua che nella loro lingua significa “l’ombelico del mondo” e si affrettarono a colonizzarla, dividendo la terra tra i diversi clan in cui erano organizzati.
Sull’isola trovarono una pietra tufacea molto tenera, facile da lavorare con piccoli martelli di basalto. Con quella cominciarono, come nella loro patria di origine, ad erigere monumenti ai loro antenati. Non si trattava di semplici monumenti funebri, dal momento che le statue degli antenati erano in grado di raccogliere il potente spirito dell’isola, il mana, e convogliarlo attraverso il loro sguardo sugli uomini, gli animali ed i campi, per assicurare prosperità e sviluppo. Poiché più imponente era la statua, più grande era la quantità di mana che essa riusciva a raccogliere, cominciò una sorta di competizione tra i diversi clan a chi costruiva la statua – moai la chiamavano nella loro lingua – più alta.
Per trasportare le statue divenne necessario abbattere un numero crescente di alberi, utilizzati come rulli su cui far avanzare i colossali moai estratti dalla pietra del vulcano spento. Ciò, unito alla massiccia deforestazione causata dalla necessità di sfamare una popolazione in continua crescita, portò fatalmente verso il punto di crisi. Quando le piogge torrenziali cominciarono ad erodere il suolo fertile, diminuendo la fertilità dei campi, i sacerdoti indussero il popolo ad innalzare statue sempre più grandi, per invocare il mana.
Alla fine le piante furono tutte abbattute e non vi fu nemmeno più il legno per costruire le barche. Divenne impossibile andare a pesca in alto mare e persino lasciare l’isola per cercare altre terre da colonizzare. A quel punto, fatalmente, scoppiò la guerra. Il prestigio della classe sacerdotale crollò e quando essa tentò di opporsi alle rivendicazione dei guerrieri, fu il massacro.
Subito dopo i guerrieri cominciarono ad attaccare ripetutamente i clan rivali. I moai vennero rovesciati dai loro basamenti e distrutti, nel tentativo di privare gli avversari della capacità di controllare il mana. Le guerre avevano però anche un altro scopo: procurarsi il cibo. E poiché sull’isola ormai scarseggiavano sia i prodotti della terra che gli animali, si prese a mangiare l’unica cosa che ancora abbondava: la carne umana.
Il giorno di Pasqua del 1722 l'esploratore olandese Jakob Roggeveen sbarcò sull’isola, dandole il nome di Isola di Pasqua. Fu seguito da altri europei, tra cui il famoso capitano James Cook che si trattenne sull’isola per quattro giorni, durante i quali furono raccolti moltissimi dati scientifici e archeologici.
Gli europei erano sorpresi dal vedere le enormi statue e non riuscivano a spiegarsi come gli abitanti, che non disponevano nemmeno di barche degne di questo nome, potessero averle trasportate. Cominciarono così a diffondersi idee fantasiose, che chiamavano in causa l’antico e scomparso continente di Mu, oppure misteriose forze magiche o, ancora, gli immancabili alieni.
Solo con studi più accurati si cominciò a capire come le cose fossero andate e di come la civiltà dell’Isola di Pasqua si fosse autodistrutta per l’incapacità di equilibrare lo sfruttamento delle risorse naturali.
Se state scuotendo la testa di fronte a tale disastro, guardatevi allo specchio, e toglietevi dal volto quello sguardo di superiorità.
Anche noi ci troviamo su un’isola, la Terra, da cui è impossibile allontanarsi. Le cui risorse sono, per quanto enormi, limitate. E se non troveremo al più presto sistemi più razionali per sfruttarle, sistemi più compatibili e di minor impatto, presto o tardi, noi o i nostri discendenti, ci troveremo di fronte ad una crisi da cui sarà impossibile uscire senza pagare un conto molto salato e senza maledire la stupidità nostra o quella delle generazioni precedenti.
Nel mezzo del Pacifico, lontana migliaia di chilometri dalla terra abitata più vicina, sorge una piccola isola di origine vulcanica, grande più o meno come l’Isola d’Elba. Qui, circa dodici secoli fa, sbarcò un gruppo di esseri umani che aveva compiuto una straordinaria traversata oceanica su barche di legno. Provenivano da ovest, probabilmente dalle Isole Marchesi, e quell’isola ricca di acqua e montagne coperte di vegetazione, circondata da un mare pescosissimo, parve loro senza dubbio un vero paradiso in terra. La chiamarono Te Pito Te Henua che nella loro lingua significa “l’ombelico del mondo” e si affrettarono a colonizzarla, dividendo la terra tra i diversi clan in cui erano organizzati.
Sull’isola trovarono una pietra tufacea molto tenera, facile da lavorare con piccoli martelli di basalto. Con quella cominciarono, come nella loro patria di origine, ad erigere monumenti ai loro antenati. Non si trattava di semplici monumenti funebri, dal momento che le statue degli antenati erano in grado di raccogliere il potente spirito dell’isola, il mana, e convogliarlo attraverso il loro sguardo sugli uomini, gli animali ed i campi, per assicurare prosperità e sviluppo. Poiché più imponente era la statua, più grande era la quantità di mana che essa riusciva a raccogliere, cominciò una sorta di competizione tra i diversi clan a chi costruiva la statua – moai la chiamavano nella loro lingua – più alta.
Per trasportare le statue divenne necessario abbattere un numero crescente di alberi, utilizzati come rulli su cui far avanzare i colossali moai estratti dalla pietra del vulcano spento. Ciò, unito alla massiccia deforestazione causata dalla necessità di sfamare una popolazione in continua crescita, portò fatalmente verso il punto di crisi. Quando le piogge torrenziali cominciarono ad erodere il suolo fertile, diminuendo la fertilità dei campi, i sacerdoti indussero il popolo ad innalzare statue sempre più grandi, per invocare il mana.
Alla fine le piante furono tutte abbattute e non vi fu nemmeno più il legno per costruire le barche. Divenne impossibile andare a pesca in alto mare e persino lasciare l’isola per cercare altre terre da colonizzare. A quel punto, fatalmente, scoppiò la guerra. Il prestigio della classe sacerdotale crollò e quando essa tentò di opporsi alle rivendicazione dei guerrieri, fu il massacro.
Subito dopo i guerrieri cominciarono ad attaccare ripetutamente i clan rivali. I moai vennero rovesciati dai loro basamenti e distrutti, nel tentativo di privare gli avversari della capacità di controllare il mana. Le guerre avevano però anche un altro scopo: procurarsi il cibo. E poiché sull’isola ormai scarseggiavano sia i prodotti della terra che gli animali, si prese a mangiare l’unica cosa che ancora abbondava: la carne umana.
Il giorno di Pasqua del 1722 l'esploratore olandese Jakob Roggeveen sbarcò sull’isola, dandole il nome di Isola di Pasqua. Fu seguito da altri europei, tra cui il famoso capitano James Cook che si trattenne sull’isola per quattro giorni, durante i quali furono raccolti moltissimi dati scientifici e archeologici.
Gli europei erano sorpresi dal vedere le enormi statue e non riuscivano a spiegarsi come gli abitanti, che non disponevano nemmeno di barche degne di questo nome, potessero averle trasportate. Cominciarono così a diffondersi idee fantasiose, che chiamavano in causa l’antico e scomparso continente di Mu, oppure misteriose forze magiche o, ancora, gli immancabili alieni.
Solo con studi più accurati si cominciò a capire come le cose fossero andate e di come la civiltà dell’Isola di Pasqua si fosse autodistrutta per l’incapacità di equilibrare lo sfruttamento delle risorse naturali.
Se state scuotendo la testa di fronte a tale disastro, guardatevi allo specchio, e toglietevi dal volto quello sguardo di superiorità.
Anche noi ci troviamo su un’isola, la Terra, da cui è impossibile allontanarsi. Le cui risorse sono, per quanto enormi, limitate. E se non troveremo al più presto sistemi più razionali per sfruttarle, sistemi più compatibili e di minor impatto, presto o tardi, noi o i nostri discendenti, ci troveremo di fronte ad una crisi da cui sarà impossibile uscire senza pagare un conto molto salato e senza maledire la stupidità nostra o quella delle generazioni precedenti.
5 commenti:
Meditate, gente, meditate...
A proposito della stupidità umana c'è un bellissimo libro, scritto qualche tempo fa, da Jacopo Fo (figlio del più celebre Dario) che si chiama "Il tuo braccio destro mi fa schifo, tagliatelo"
Carissimo Alfa,
hai riassunto stupendamente la storia dell'Isola di Pasqua che è una parabola ricca di ammonimenti!
Purtroppo per l'Umanità, il "passo dell'intelligenza" di cui parlava Isabella Conti a Bernard Moitessier, nell'atollo disabitato di Suvarow, sperduto nel Pacifico, è ancora molto lontano...
L'esempio da te riportato, mi fa pensare alle foto aeree del confine sui monti tra lo stato di Haiti e la Repubblica Dominicana:
sul territorio di Santo Domingo una foresta pluviale senza pari, poi la linea di demarcazione del confine ed il deserto: la montagna brulla e rasata a zero!
Anche ad Haiti si sono tagliati tutti gli alberi! (O quasi...)
Sulla storia dell'Isola di Pasqua, Kevin Costner, negli anni 90 produsse un film "Rapa Nui" che descrive molto bene ciò che tu hai raccontato in questo post.
Anche Kevin ha cercato con il film di lasciare all'Umanità un monito importante, ricavandone in cambio solo un flop commerciale.
(Ed il film, almeno a mio parere, era molto bello.)
Grazie del tuo post!!!
A presto!!
Ma l'uomo sa guardarsi indietro e comprendere dai propri errori, temo di no, la storia di ogni giorno lo dimostra. Ma cercare di non perdere la memori adi ogni cosa può essere un antidoto. Miao
@ Mr provati etc: andrò a cercarlo.
@ Milo: sì, l'ho visto e mi è piaciuto molto. Purtroppo i risultati di certe scelte (o non scelte) sono spesso tragici).
@ Fel: mi ostino a pensare che la memoria sia l'unico antidoto al ripetersi di certi errori.
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