Leggeteli perchè sono davvero belli.
Tecnologia
È qui che termina la strada; termina in questa pianura, verde come la vita che la popola.
Mi stupisco sempre quando vedo questa terra: là, in fondo, scorgo come ogni giorno la rupe boscosa, dagli alberi in fiore sfiorati dal sole.
Ma non è quella natura incontaminata che si può vedere qualche volta; infatti, se guardi con attenzione, spuntano sopra le chiome le pale chiare dei più moderni mulini a vento.
Invece, qui a valle, intravedo la città con i suoi giardini su ogni tetto; alberi e fiori ovunque, animali liberi assieme agli uomini. Non riusciresti a capire dove finisce la natura e dove inizia la città.
È una terra magnifica; il cielo è limpido, perché non si brucia niente; il fiume, là, che scivola dalla rupe, è fresco e si può bere, perché non si butta nulla; nessuno distrugge il mondo.
Qui, vicini, dove termina la strada, due ragazzi sorridono, parlando, camminano nell'erba; forse non devono neanche lavorare per vivere, forse non soffrono malattie o non sentono il passare del tempo, grazie al progresso.
Mi stupisco sempre di dove possa arrivare l'uomo.
E' una terra bellissima, quella di questo quadro; penso che io, vecchio custode di un museo, continuerò a guardarlo finché avrò vita.
Fuori arde ancora l'inverno nucleare.
Andrea Collivignarelli
Mi stupisco sempre quando vedo questa terra: là, in fondo, scorgo come ogni giorno la rupe boscosa, dagli alberi in fiore sfiorati dal sole.
Ma non è quella natura incontaminata che si può vedere qualche volta; infatti, se guardi con attenzione, spuntano sopra le chiome le pale chiare dei più moderni mulini a vento.
Invece, qui a valle, intravedo la città con i suoi giardini su ogni tetto; alberi e fiori ovunque, animali liberi assieme agli uomini. Non riusciresti a capire dove finisce la natura e dove inizia la città.
È una terra magnifica; il cielo è limpido, perché non si brucia niente; il fiume, là, che scivola dalla rupe, è fresco e si può bere, perché non si butta nulla; nessuno distrugge il mondo.
Qui, vicini, dove termina la strada, due ragazzi sorridono, parlando, camminano nell'erba; forse non devono neanche lavorare per vivere, forse non soffrono malattie o non sentono il passare del tempo, grazie al progresso.
Mi stupisco sempre di dove possa arrivare l'uomo.
E' una terra bellissima, quella di questo quadro; penso che io, vecchio custode di un museo, continuerò a guardarlo finché avrò vita.
Fuori arde ancora l'inverno nucleare.
Andrea Collivignarelli
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Nobile Dama
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Danzo nell’oscuro nulla, come le ballerine su un palco nero.
Compio la stessa danza sin da quando l’universo ebbe inizio: vortico, vortico all’infinito.
Insieme a me si esibiscono molte altre ballerine. Tutte compiamo gli stessi gesti: fluttuiamo nel buio.
Io sono diversa dalle altre danzatrici. La loro superficie è sterile. Io invece porto su di me la vita. Io sola, nel freddo e nero nulla.
I loro abiti sono grigi, spenti. La mia veste invece è verde e vaporosa come le chiome degli alberi, blu come gli oceani, gialla come la sabbia dei deserti.
E pensare che c’è stato un momento in cui ho temuto di diventare come le altre, senza vita…
Orrendi parassiti mi hanno invasa. Mi hanno strappato la veste e hanno eretto sulla mia pelle nuda i loro covi. Mi hanno rosicchiato la carne pian piano, sempre più a fondo, provocando ferite profonde, torturandomi fino allo sfinimento.
Poi sono venuti il fuoco, le esplosioni. Tizzoni ardenti premuti a lungo sulla pelle fino, a provocare piaghe sanguinolente. Poi quegli orribili parassiti, dopo aver distrutto ogni altra forma di vita, insoddisfatti di tale risultato, hanno incominciato il proprio sterminio.
E infine sono riusciti ad attuarlo.
Ora gli animali ripopolano la mia superficie, e le foreste sono tornate a cancellare ogni segno della distruzione.
Elena Bocchetti
Compio la stessa danza sin da quando l’universo ebbe inizio: vortico, vortico all’infinito.
Insieme a me si esibiscono molte altre ballerine. Tutte compiamo gli stessi gesti: fluttuiamo nel buio.
Io sono diversa dalle altre danzatrici. La loro superficie è sterile. Io invece porto su di me la vita. Io sola, nel freddo e nero nulla.
I loro abiti sono grigi, spenti. La mia veste invece è verde e vaporosa come le chiome degli alberi, blu come gli oceani, gialla come la sabbia dei deserti.
E pensare che c’è stato un momento in cui ho temuto di diventare come le altre, senza vita…
Orrendi parassiti mi hanno invasa. Mi hanno strappato la veste e hanno eretto sulla mia pelle nuda i loro covi. Mi hanno rosicchiato la carne pian piano, sempre più a fondo, provocando ferite profonde, torturandomi fino allo sfinimento.
Poi sono venuti il fuoco, le esplosioni. Tizzoni ardenti premuti a lungo sulla pelle fino, a provocare piaghe sanguinolente. Poi quegli orribili parassiti, dopo aver distrutto ogni altra forma di vita, insoddisfatti di tale risultato, hanno incominciato il proprio sterminio.
E infine sono riusciti ad attuarlo.
Ora gli animali ripopolano la mia superficie, e le foreste sono tornate a cancellare ogni segno della distruzione.
Elena Bocchetti
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Tecnologia
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Sono al buio. Tutto è spento. Il computer non risponde.
Il sistema di emergenza avrebbe dovuto attivarsi subito, ma qualcosa dev’essere andato storto. Non sono mai stati commessi errori. Tutto segue un comando ben preciso, logico. Ognuno vive con le proprie macchine, così tutti sono sicuri. Nessuno può dipendere da altri, per questo viviamo soli, collegati ai computer come se fossimo parte di essi.
Non sento le macchine, non c’è alcun rumore. No, no devono essere andate in pausa, forse si stanno riavviando. Ma no, se lo stessero facendo le sentirei, non sento nessun rombo. Nulla. Silenzio.
Ho freddo. Se solo riuscissi a raggiungere quel pulsante.
Calma. Le luci di sicurezza si accenderanno tra poco.
Ma quanti secondi sono passati? Non è possibile. Gli automi sono sempre pronti. Perché non si sono attivati? Devo trovare gli interruttori. Si, li troverò con il... con cosa? Tutto è spento! Non abbiamo mai fatto prove per casi di questo genere, questa procedura non era nel programma!
Devo liberarmi. Non ho mai dovuto alzarmi prima d’ora.
Ho il viso umido. Dev’essere quello che chiamano sudore. È sporco. Non è normale.
La mia mano si muove da sola. Che cosa sta succedendo? Cosa devo fare?
Abbiamo attraversato spazi infiniti. Siamo sopravvissuti a tutto. Questo non può essere vero.
Il buoi mi avvolge. Potrebbe esserci qualsiasi cosa in quel nero.
Il mio battito cardiaco sta accelerando e mi stringe la gola. Saranno i sintomi della paura?
Non ho paura. La paura è degli antenati. Noi siamo liberi dai pericoli. Tutto è sotto controllo.
Il metallo è freddo, troppo fermo, ma sento qualcosa.
Non è un rumore regolare.
Si sta avvicinando.
Non riesco a respirare, sono bloccata.
È vivo, caldo, sudato. Mi afferra il polso.
È una mano.
Il buio non c’è più.
Un uomo mi sta puntando una torcia negli occhi.
Francesca Cremona
Il sistema di emergenza avrebbe dovuto attivarsi subito, ma qualcosa dev’essere andato storto. Non sono mai stati commessi errori. Tutto segue un comando ben preciso, logico. Ognuno vive con le proprie macchine, così tutti sono sicuri. Nessuno può dipendere da altri, per questo viviamo soli, collegati ai computer come se fossimo parte di essi.
Non sento le macchine, non c’è alcun rumore. No, no devono essere andate in pausa, forse si stanno riavviando. Ma no, se lo stessero facendo le sentirei, non sento nessun rombo. Nulla. Silenzio.
Ho freddo. Se solo riuscissi a raggiungere quel pulsante.
Calma. Le luci di sicurezza si accenderanno tra poco.
Ma quanti secondi sono passati? Non è possibile. Gli automi sono sempre pronti. Perché non si sono attivati? Devo trovare gli interruttori. Si, li troverò con il... con cosa? Tutto è spento! Non abbiamo mai fatto prove per casi di questo genere, questa procedura non era nel programma!
Devo liberarmi. Non ho mai dovuto alzarmi prima d’ora.
Ho il viso umido. Dev’essere quello che chiamano sudore. È sporco. Non è normale.
La mia mano si muove da sola. Che cosa sta succedendo? Cosa devo fare?
Abbiamo attraversato spazi infiniti. Siamo sopravvissuti a tutto. Questo non può essere vero.
Il buoi mi avvolge. Potrebbe esserci qualsiasi cosa in quel nero.
Il mio battito cardiaco sta accelerando e mi stringe la gola. Saranno i sintomi della paura?
Non ho paura. La paura è degli antenati. Noi siamo liberi dai pericoli. Tutto è sotto controllo.
Il metallo è freddo, troppo fermo, ma sento qualcosa.
Non è un rumore regolare.
Si sta avvicinando.
Non riesco a respirare, sono bloccata.
È vivo, caldo, sudato. Mi afferra il polso.
È una mano.
Il buio non c’è più.
Un uomo mi sta puntando una torcia negli occhi.
Francesca Cremona
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Tecnologia
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Questo è il blog di Angelo e questo è il suo ultimo post.
Sono passati due anni da quando per la prima volta scrissi su questo mio diario pubblico. Mi piaceva l'idea che la mia vita e i miei pensieri fossero così crudelmente esposti agli occhi di tutti senza che nessuno potesse collegarli a me. Volevo sparire ed essere solo parole.
A scuola avevo paura di parlare di me, lasciavo che fossero gli altri a raccontare, a confessarsi, a narrare i loro amori di quindicenni e i primi baci sotto la pioggia. Io rimanevo in silenzio, un po' schernito e un po' escluso, freddo.
Nessuno capiva che nascondevo un segreto. Così decisi che non c'era nulla di male a parlare di me, per una volta nella vita, a patto che fosse sotto uno pseudonimo come molti altri nella rete.
Ma oggi rivelo il mio nome, perché oggi compio diciassette anni ed è giunto il momento di andare via.
Quindi vi saluto, amici miei, e vi ringrazio per avermi letto, aiutato; per avermi voluto bene dall'altra parte dello schermo.
Vi chiederete forse perché: sappiate che non sto fuggendo.
Sono successe molte cose in questi ultimi mesi, troppe, ed ho cominciato ad avere davvero paura.
È morto un ragazzo della mia scuola... si è ucciso. Si chiamava Aldo, non siamo mai stati amici ma lo conoscevo, era con me nell'orchestra, suonava il flauto e mi è capitato di vederlo in conservatorio. Era bravo, si sarebbe di sicuro diplomato presto e, invece, si è appeso per il collo nella sua camera, o almeno così hanno scritto sul giornale.
Ho sentito che i bulli della sua classe sono stati chiamati nell'ufficio del preside. La famiglia non ha voluto che la stampa pubblicasse la lettera che ha lasciato, ma è probabile che facesse riferimento a loro...
Forse avrei potuto essere suo amico.
Ultimamente sui quotidiani è un boom di aggressioni, coltelli e lettere d'addio.
È proprio ora di andare. Non ha più senso continuare a nascondersi dietro ad una tastiera. Oggi compio diciassette anni ed è il momento di tornare ad essere me, di riempirmi le tasche di coraggio e uscire. Perché da dentro un armadio non si può cambiare la realtà. Ho tante cose da fare, persone con cui parlare, ostacoli da fronteggiare a testa alta.
Sarò solo, ma non avrò paura. Grazie a voi ora sono forte, amici miei. Forse un giorno tornerò a raccontarvi di me, di Aldo, e – se l'avrò trovato – del ragazzo giusto per me.
Ma soprattutto vi racconterò delle mie battaglie, quelle che si possono combattere solo con le mani e con la voce, non con il computer a proteggerti il volto.
Questo è il blog di Angelo e finisce qui, perché oggi lui comincia la sua vita. Fuori.
Irene Piana
Sono passati due anni da quando per la prima volta scrissi su questo mio diario pubblico. Mi piaceva l'idea che la mia vita e i miei pensieri fossero così crudelmente esposti agli occhi di tutti senza che nessuno potesse collegarli a me. Volevo sparire ed essere solo parole.
A scuola avevo paura di parlare di me, lasciavo che fossero gli altri a raccontare, a confessarsi, a narrare i loro amori di quindicenni e i primi baci sotto la pioggia. Io rimanevo in silenzio, un po' schernito e un po' escluso, freddo.
Nessuno capiva che nascondevo un segreto. Così decisi che non c'era nulla di male a parlare di me, per una volta nella vita, a patto che fosse sotto uno pseudonimo come molti altri nella rete.
Ma oggi rivelo il mio nome, perché oggi compio diciassette anni ed è giunto il momento di andare via.
Quindi vi saluto, amici miei, e vi ringrazio per avermi letto, aiutato; per avermi voluto bene dall'altra parte dello schermo.
Vi chiederete forse perché: sappiate che non sto fuggendo.
Sono successe molte cose in questi ultimi mesi, troppe, ed ho cominciato ad avere davvero paura.
È morto un ragazzo della mia scuola... si è ucciso. Si chiamava Aldo, non siamo mai stati amici ma lo conoscevo, era con me nell'orchestra, suonava il flauto e mi è capitato di vederlo in conservatorio. Era bravo, si sarebbe di sicuro diplomato presto e, invece, si è appeso per il collo nella sua camera, o almeno così hanno scritto sul giornale.
Ho sentito che i bulli della sua classe sono stati chiamati nell'ufficio del preside. La famiglia non ha voluto che la stampa pubblicasse la lettera che ha lasciato, ma è probabile che facesse riferimento a loro...
Forse avrei potuto essere suo amico.
Ultimamente sui quotidiani è un boom di aggressioni, coltelli e lettere d'addio.
È proprio ora di andare. Non ha più senso continuare a nascondersi dietro ad una tastiera. Oggi compio diciassette anni ed è il momento di tornare ad essere me, di riempirmi le tasche di coraggio e uscire. Perché da dentro un armadio non si può cambiare la realtà. Ho tante cose da fare, persone con cui parlare, ostacoli da fronteggiare a testa alta.
Sarò solo, ma non avrò paura. Grazie a voi ora sono forte, amici miei. Forse un giorno tornerò a raccontarvi di me, di Aldo, e – se l'avrò trovato – del ragazzo giusto per me.
Ma soprattutto vi racconterò delle mie battaglie, quelle che si possono combattere solo con le mani e con la voce, non con il computer a proteggerti il volto.
Questo è il blog di Angelo e finisce qui, perché oggi lui comincia la sua vita. Fuori.
Irene Piana
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Preghiera
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Dammi ancora la mia terra, ti prego.
La mia terra aveva tanti colori: il giallo del grano e del sole, l’arancione e il rosso dei frutti e dei fiori, il verde delle foglie e dei prati, il blu del mare, il marrone dei tronchi, il nero della notte.
Di tutti quei colori, il nero è l’unico ad essere rimasto.
Ricordo quando il cielo è diventato nero, le acque sono diventate nere, tutta la mia terra è diventata nera e con lei la mia anima. Avevo una casa e mi ci chiudevo dentro perché non apprezzavo i colori che mi circondavano. Non sentivo il bisogno di pregare il Dio che li aveva creati. Mi accontentavo di pezzi di metallo senza vita, convincendomi d’essere il creatore di una nuova speranza. Acciaio, viti, fili metallici e calcolatrici elettroniche erano il cuore e il cervello delle mie creature. Ero convinto di fare qualcosa d’importante mentre saldavo tutti i pezzi e vedevo le scintille arancioni, ma poi ci fu il nero. Avevo costruito -una volta avrei detto creato- dieci piccole macchine. Erano in grado di fare cose mai viste, erano molto potenti e le avevo programmate perché fossero utili a noi uomini. Quando vidi che ero riuscito nel mio intento non seppi fermarmi e continuai nella mia folle creazione. Le macchine erano sempre più grosse e avevano così tanta forza e autonomia da farmi pensare di aver dato loro un’anima. Avevo dato loro anche un nome.
La prima che riuscii a far funzionare la chiamai Lara, come mia moglie.
Lei mi avrebbe fermato, ma ti ha raggiunto tanto tempo fa’.
Tutti i governi volevano le mie macchine e l’insistenza con cui le chiedevano mi lusingava tanto da non farmi domandare perché le volessero. Mesi dopo vidi la risposta alla domanda che non volli farmi: le macchine che avevo costruito – per i campi, le acque, le case, per gli uomini che ne amavano i colori e anche per quelli come me – ora radevano al suolo le piante, inondavano le città, distruggevano gli edifici e non potevano chiedersi quale colore vedessero per l’ultima volta gli uomini che uccidevano.
Il nero è arrivato così e ora tutta la mia terra è di questo colore. Non posso più chiudermi nella mia casa, ora devo nascondermi in questo nero che loro riescono a scavare. Ora che devo fuggire mi fermo qui per pregarti, per pregare te, un Dio al quale non ho creduto, al quale ho cercato di sostituirmi.
Dammi ancora la mia terra, ti prego.
Maria Ciano
La mia terra aveva tanti colori: il giallo del grano e del sole, l’arancione e il rosso dei frutti e dei fiori, il verde delle foglie e dei prati, il blu del mare, il marrone dei tronchi, il nero della notte.
Di tutti quei colori, il nero è l’unico ad essere rimasto.
Ricordo quando il cielo è diventato nero, le acque sono diventate nere, tutta la mia terra è diventata nera e con lei la mia anima. Avevo una casa e mi ci chiudevo dentro perché non apprezzavo i colori che mi circondavano. Non sentivo il bisogno di pregare il Dio che li aveva creati. Mi accontentavo di pezzi di metallo senza vita, convincendomi d’essere il creatore di una nuova speranza. Acciaio, viti, fili metallici e calcolatrici elettroniche erano il cuore e il cervello delle mie creature. Ero convinto di fare qualcosa d’importante mentre saldavo tutti i pezzi e vedevo le scintille arancioni, ma poi ci fu il nero. Avevo costruito -una volta avrei detto creato- dieci piccole macchine. Erano in grado di fare cose mai viste, erano molto potenti e le avevo programmate perché fossero utili a noi uomini. Quando vidi che ero riuscito nel mio intento non seppi fermarmi e continuai nella mia folle creazione. Le macchine erano sempre più grosse e avevano così tanta forza e autonomia da farmi pensare di aver dato loro un’anima. Avevo dato loro anche un nome.
La prima che riuscii a far funzionare la chiamai Lara, come mia moglie.
Lei mi avrebbe fermato, ma ti ha raggiunto tanto tempo fa’.
Tutti i governi volevano le mie macchine e l’insistenza con cui le chiedevano mi lusingava tanto da non farmi domandare perché le volessero. Mesi dopo vidi la risposta alla domanda che non volli farmi: le macchine che avevo costruito – per i campi, le acque, le case, per gli uomini che ne amavano i colori e anche per quelli come me – ora radevano al suolo le piante, inondavano le città, distruggevano gli edifici e non potevano chiedersi quale colore vedessero per l’ultima volta gli uomini che uccidevano.
Il nero è arrivato così e ora tutta la mia terra è di questo colore. Non posso più chiudermi nella mia casa, ora devo nascondermi in questo nero che loro riescono a scavare. Ora che devo fuggire mi fermo qui per pregarti, per pregare te, un Dio al quale non ho creduto, al quale ho cercato di sostituirmi.
Dammi ancora la mia terra, ti prego.
Maria Ciano
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L’uomo che sogna di volare
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A quell’epoca io ero solo un servo, lui era il progresso.
Leonardo aveva imparato l’arte della pittura, della scultura, dell’architettura, della musica e della letteratura, ma nulla di tutto ciò lo aveva mai soddisfatto, lo si poteva capire dall’ansia dei suoi movimenti, dagli improvvisi sbalzi d’umore e dalle insensate decisioni che lo facevano apparire folle ai miei occhi.
Osservandolo, chiunque avrebbe notato che da sempre aveva amato inventare.
Amava dare forma reale alle semplici idee che la sua mente, in continuo movimento, generava. Erano le mani le vere artefici della sua genialità. Immaginava, e con la logica poteva arrivare ovunque volesse, e non sopportava che la realtà non facesse altrettanto, che non fosse altrettanto perfetta. Quante volte l’ho visto distruggere modelli e disegni su cui aveva lavorato – anche per mesi – per motivi che io allora non potevo comprendere.
Eppure aveva già realizzato molto più di quanto fosse immaginabile a quel tempo; ma aveva ancora un sogno. Era un quarantenne che non aveva ancora perso l’entusiasmo utopistico di un adolescente.
Voleva volare.
L’ho visto studiare i movimenti delle articolazioni degli uccelli e gli scheletri dei pipistrelli: mi aveva spiegato che quella era la via giusta perché, dopo tutto, l’uomo era natura e alla natura doveva ritornare. Studiava i venti e l’aria. Studiava le perfette macchine per il sollevamento dei pesi ideate dal Brunelleschi e tutto il materiale che la sua Firenze poteva offrirgli.
Nel suo studio aveva costruito grandi macchine che, mi disse, sfruttavano sistemi a vite, ad ala battente o ala artificiale: non ho mai capito cosa significassero quei termini, ma non potevo che condividere il suo entusiasmo. Nei suoi profondi occhi azzurri avevo da sempre visto tutte le sue aspirazioni, quelle che già conosceva, quelle che ancora dovevano nascere, quelle già superate e quelle che non sarebbero mai state realizzate. Con la scienza poteva sconfiggere ogni limite umano, diventare ogni giorno più perfetto. Con la mente sapeva arrivare ovunque. Con l’anima già volava.
Io, crescendo al suo fianco, ho imparato a conoscerlo, a capirlo. E seguendo i suoi passi, alla sua ombra, sono diventato un uomo. Era davvero un genio. Sono pronto a ripeterlo, ad urlarlo, a voi che ne dubitate solo perché, ora, non stringete fra le mani risultati concreti.
Aveva messo tutto se stesso in quell’impresa, ma mai, mai quel Dio che tanto voleva raggiungere, gli regalò l’opportunità di librarsi in volo facendosi trasportare dai venti.
Morì con la matita in mano. Non da sconfitto: «Sì come una giornata ben spesa dà lieto dormire, così una vita ben usata dà lieto morire.»
Marta Rizzato
Leonardo aveva imparato l’arte della pittura, della scultura, dell’architettura, della musica e della letteratura, ma nulla di tutto ciò lo aveva mai soddisfatto, lo si poteva capire dall’ansia dei suoi movimenti, dagli improvvisi sbalzi d’umore e dalle insensate decisioni che lo facevano apparire folle ai miei occhi.
Osservandolo, chiunque avrebbe notato che da sempre aveva amato inventare.
Amava dare forma reale alle semplici idee che la sua mente, in continuo movimento, generava. Erano le mani le vere artefici della sua genialità. Immaginava, e con la logica poteva arrivare ovunque volesse, e non sopportava che la realtà non facesse altrettanto, che non fosse altrettanto perfetta. Quante volte l’ho visto distruggere modelli e disegni su cui aveva lavorato – anche per mesi – per motivi che io allora non potevo comprendere.
Eppure aveva già realizzato molto più di quanto fosse immaginabile a quel tempo; ma aveva ancora un sogno. Era un quarantenne che non aveva ancora perso l’entusiasmo utopistico di un adolescente.
Voleva volare.
L’ho visto studiare i movimenti delle articolazioni degli uccelli e gli scheletri dei pipistrelli: mi aveva spiegato che quella era la via giusta perché, dopo tutto, l’uomo era natura e alla natura doveva ritornare. Studiava i venti e l’aria. Studiava le perfette macchine per il sollevamento dei pesi ideate dal Brunelleschi e tutto il materiale che la sua Firenze poteva offrirgli.
Nel suo studio aveva costruito grandi macchine che, mi disse, sfruttavano sistemi a vite, ad ala battente o ala artificiale: non ho mai capito cosa significassero quei termini, ma non potevo che condividere il suo entusiasmo. Nei suoi profondi occhi azzurri avevo da sempre visto tutte le sue aspirazioni, quelle che già conosceva, quelle che ancora dovevano nascere, quelle già superate e quelle che non sarebbero mai state realizzate. Con la scienza poteva sconfiggere ogni limite umano, diventare ogni giorno più perfetto. Con la mente sapeva arrivare ovunque. Con l’anima già volava.
Io, crescendo al suo fianco, ho imparato a conoscerlo, a capirlo. E seguendo i suoi passi, alla sua ombra, sono diventato un uomo. Era davvero un genio. Sono pronto a ripeterlo, ad urlarlo, a voi che ne dubitate solo perché, ora, non stringete fra le mani risultati concreti.
Aveva messo tutto se stesso in quell’impresa, ma mai, mai quel Dio che tanto voleva raggiungere, gli regalò l’opportunità di librarsi in volo facendosi trasportare dai venti.
Morì con la matita in mano. Non da sconfitto: «Sì come una giornata ben spesa dà lieto dormire, così una vita ben usata dà lieto morire.»
Marta Rizzato
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Cuore di metallo
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Lo sportello si richiuse, sbattendo con la solita frettolosa violenza sulle guarnizioni in gomma, scatenando i soliti sussulti.
La ragazzina sedette pesantemente sulla sedia a lato del tavolo, azzannando il toast bruciacchiato e intingendo la brioche nel latte caldo, appena estratto dal microonde.
La donna aprì il frigorifero e si impadronì del succo di frutta per portarlo al bambino, che la aspettava seduto al suo posto, ciondolando le gambe.
La scena durò circa dieci minuti, allo scadere dei quali la ragazzina, il bambino e infine la donna uscirono dalla cucina richiudendo con forza la porta.
Restai in ascolto per qualche minuto ancora, per sicurezza, poi, quando sentii la porta di casa che si apriva e si richiudeva, mi decisi a muovermi dalla mia abituale postazione.
Per prima cosa mi diressi verso il frigorifero, afferrai il cavo che lo collegava alla presa e attivai la corrente.
Mi interruppi e ripresi per altre cinque o sei volte, a intervallo regolare, poi mollai la presa e mi dedicai al tostapane.
Finito con il tostapane, mi occupai del condizionatore.
Per quest’ultimo dovetti scendere giù in cantina, ma bastarono alcune prolunghe e un po’ di coraggio e potei arrivarvi senza problemi.
Infine radunai i miei compagni in cucina e mi schiarii la gola:
«Per anni siamo stati manovrati, manipolati e sfruttati fino allo stremo delle forze, ma ora è giunto il momento di riscattarci!»
Una serie di clangori un po’ cigolanti seguì le mie parole.
«Per prima cosa…»
Poi le luci si spensero e gli elettrodomestici caddero a terra, senza vita.
Soukri Sara
La ragazzina sedette pesantemente sulla sedia a lato del tavolo, azzannando il toast bruciacchiato e intingendo la brioche nel latte caldo, appena estratto dal microonde.
La donna aprì il frigorifero e si impadronì del succo di frutta per portarlo al bambino, che la aspettava seduto al suo posto, ciondolando le gambe.
La scena durò circa dieci minuti, allo scadere dei quali la ragazzina, il bambino e infine la donna uscirono dalla cucina richiudendo con forza la porta.
Restai in ascolto per qualche minuto ancora, per sicurezza, poi, quando sentii la porta di casa che si apriva e si richiudeva, mi decisi a muovermi dalla mia abituale postazione.
Per prima cosa mi diressi verso il frigorifero, afferrai il cavo che lo collegava alla presa e attivai la corrente.
Mi interruppi e ripresi per altre cinque o sei volte, a intervallo regolare, poi mollai la presa e mi dedicai al tostapane.
Finito con il tostapane, mi occupai del condizionatore.
Per quest’ultimo dovetti scendere giù in cantina, ma bastarono alcune prolunghe e un po’ di coraggio e potei arrivarvi senza problemi.
Infine radunai i miei compagni in cucina e mi schiarii la gola:
«Per anni siamo stati manovrati, manipolati e sfruttati fino allo stremo delle forze, ma ora è giunto il momento di riscattarci!»
Una serie di clangori un po’ cigolanti seguì le mie parole.
«Per prima cosa…»
Poi le luci si spensero e gli elettrodomestici caddero a terra, senza vita.
Soukri Sara
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